Ciao Umberto

Umberto Marcoccio nel 2010Stanotte è spirato Umberto Marcoccio, il cui nome è indissolubilmente legato a quello del Calcio Catania. In rossazzurro ha infatti militato per oltre trent’anni, prima come calciatore, poi come medico sociale e dirigente durante la gestione del fratello Ignazio e di Angelo Massimino. La sua riservatezza lo teneva lontano dalle luci della ribalta, ma grazie a Antonio Buemi, Alessandro Russo, Filippo Solarino, Roberto Quartarone e Silvia Ventimiglia, possiamo proporvi una lunga intervista rilasciata in esclusiva nel dicembre del 2009. Un documento che è un viaggio nella storia del club attraverso gli occhi di un protagonista del calcio che fu, ma anche un omaggio alla memoria di un personaggio indimenticabile e un modo per esprimere la nostra vicinanza alla famiglia.

Umberto Marcoccio, una vita in rossazzurro

Calciatore prima, dirigente e medico sociale dopo, un pezzo di storia del Catania ci accompagna in un viaggio nel tempo e nei ricordi

«Sono stato il primo medico sportivo a Catania». Umberto Marcoccio, classe di ferro 1922 e una memoria prodigiosa che promette di farmi vivere un affascinante viaggio nella storia del calcio rossazzurro, mostra orgoglioso il diploma che attesta la sua qualifica. Lo incontro nella sua abitazione di Corso delle Province dove insieme alla figlia Marina riceve me, Filippo e Roberto, due amici con cui condivido la passione per il Catania.

«Quando venni ad abitare qui c’erano solo due palazzi: questo, in cui vive anche mio fratello Ignazio, e quello di fronte, poi più nulla fino a Guardia Ognina», ricorda il nostro interlocutore, che già ci ha conquistato con la sua simpatia e la passione che traspare dai suoi occhi mentre parla dei tempi andati. Suo fratello Ignazio è colui che nella calda primavera del 1959, su mandato della Lega Calcio, prese in mano il morente Club Calcio Catania con il compito titanico di rianimarlo e garantirne la sopravvivenza. Riuscì a fare molto di più: costruì una squadra capace di conquistare la promozione in A e poi di difenderla per ben sei anni. Umberto, che già aveva legato il suo nome al Catania ante-guerra, era il medico sociale, ma anche il più fidato consigliere del commissario, che lo consultava prima di ogni decisione. Due sono le passioni della sua vita: il calcio e la medicina.

«Ricordo lo spareggio con il Terni del 1943, che doveva essere la prima tappa delle qualificazioni a sei per la Serie B. Nessuno ci dava credito, la stampa nazionale ironizzava sulle nostre velleità di accedere alla cadetteria e quando all’andata ci trovammo di fronte undici marcantoni, anche il nostro seguito dovette avere qualche dubbio. In realtà eravamo molto forti, io ero un’ala sgusciante, di quelle che cercano la linea di fondo e crossano al centro per la gioia degli attaccanti, e proprio la mia agilità fu un’arma in più in quell’occasione, vista la stazza degli avversari. Segnò per noi Presselli e i padroni di casa pareggiarono solo grazie ad un gol irregolare. Sicuramente avremmo vinto il girone e saremmo stati promossi: eravamo davvero forti». Le altre gare di spareggio non si disputarono mai, perché la guerra stravolse ogni cosa. «Ma quando scoppiò la pace tornai a giocare nel ricostituito sodalizio rossazzurro. Prendevo 500 lire, mentre i miei compagni non catanesi ne guadagnavano 700, ma io mi allenavo solo il giovedì, e solo fino ad aprile, perché studiavo e dovevo laurearmi. E dire che a scuola non mi ero mai impegnato più di tanto, ma la medicina mi piaceva a tal punto che per conciliare lo studio con la mia attività pedatoria mi portavo persino i libri in trasferta, e riuscii pure a recuperare l’anno perso per il conflitto mondiale dando il doppio degli esami all’ultimo anno». L’orgoglio che trasuda da queste parole è pienamente giustificato, una lezione per tutti coloro che non credono al motto “volere è potere” e troppo presto rinunciano ai propri sogni.

Umberto Marcoccio nel 1947
Umberto Marcoccio con la maglia del Catania nel 1948.

Ma i ricordi di Umberto Marcoccio coprono una fetta di storia ben più ampia, perché rimase al fianco del fratello e successivamente di Angelo Massimino fino al 1975, quando disse basta e si fece da parte, ripromettendosi di non rimettere mai più piede in uno stadio, come in effetti fece. «Fu dopo una partita di Coppa Italia, allora capii che nel calcio non c’era più posto per me, ma non voglio parlare di questo».
Torniamo allora agli anni d’oro del binomio “Marcoccio-Di Bella”. «Fui proprio io a volere Di Bella alla guida della prima squadra, anche se tutti gli addetti ai lavori lo consideravano un azzardo ai limiti della follia. Io però Carmelo lo conoscevo bene, lo avevo avuto come compagno e sapevo quanto valesse, anche se aveva allenato solo piccole squadre come l’Igea Virtus di Barcellona. Mi dispiacque quando perdemmo i contatti, quasi si fosse dimenticato della nostra amicizia, d’altra parte la sua carriera lo portò spesso lontano da Catania». Fece bene Ignazio ad ascoltare il fratello, considerati i risultati. «Anche Ignazio veniva preso per pazzo nell’ambiente perché parlava di promozione in A con il club in quelle condizioni, cioè senza una lira. Andavamo avanti con i prestiti degli amici, e anche se un po’ in ritardo saldavamo sempre ogni spettanza. Nessuno della società guadagnò mai una lira. Però sapevamo anche muoverci bene. Nel 1959-’60 mettemmo su una rosa di livello, basti pensare all’acquisto di Mirko Ferretti, un centrocampista fra i più talentuosi che abbiano vestito la nostra maglia. Mio fratello lo presentò a Di Bella come l’uomo che ci avrebbe portato in A, ma si vedeva benissimo che Carmelo non ci credeva! Invece fin dalle prime partite le cose andarono bene, e questo ci incoraggiò, anche se avevamo una rosa esigua, al punto che con il Torino la nostra ala dovette scendere in campo anche se infortunata. In A concludemmo altri ottimi affari. Per esempio prendemmo Calvanese, che veniva da una pessima stagione al Genoa. Appena lo vidi notai subito che le sue labbra erano viola, quasi cianotiche e lo portai nel mio studio, una specie di seconda casa per i nostri giocatori. Gli misurai la pressione, che era bassissima, come mi aspettavo. Non mi fu difficile rimetterlo in sesto, e infatti fece un grande campionato. Quando andò all’Atalanta ricominciò a stentare, evidentemente non avevano saputo curarlo come me. C’ero anche quando concludemmo l’acquisto del gigante tedesco Horst Szymaniak, forse il più grande giocatore che abbia mai avuto il Catania. Lo rivendemmo all’Inter due anni dopo per 100 milioni di lire. E come dimenticare quando Ignazio mi telefonò dicendomi che c’era la possibilità di prendere Beppe Vavassori? Quella volta fui io a dargli del pazzo, immaginando un’operazione dai costi astronomici, ma lui mi spiegò che la Juventus lo avrebbe ceduto in cambio di Gaspari, guardiapali che noi avevamo acquistato dal Livorno per mezzo milione appena, e ci avrebbe anche dato 27 milioni di conguaglio. Gli urlai di accettare immediatamente». Nasceva così il Catania “ammazza-grandi”, quello del “Clamoroso al Cibali”. «Già, pure nella nascita di quella leggenda misi il mio zampino. Era la stagione 1960-’61, da matricola arrivammo all’ultima giornata del girone di andata al terzo posto, ma con la possibilità di diventare campioni d’inverno battendo a San Siro l’Inter di Helenio Herrera nell’ultimo turno. Per noi già competere con i nerazzurri che dominavano in Italia e in Europa era un evento, ci presentammo a Milano con il vestito nuovo della festa, ma in campo non ci capimmo molto. Già all’intervallo avevamo tre autoreti sul groppone e un uomo infortunato. Al rientro in campo mi fermai davanti alla panchina dell’Inter per parlare con il medico sociale, ma Herrera mi cacciò via in malo modo. Io risposi a tono dicendogli testualmente: “Cornuto, quando scinni a Catania ta fazzu pavari!”. Le sue famose dichiarazioni irridenti dopo il 5-0 finale non fecero che caricarmi ulteriormente di rabbia. Al ritorno noi eravamo già salvi da un pezzo, mentre loro dovevano vincere per sperare di riagguantare la Juventus, con la quale dovevano recuperare lo scontro diretto che avrebbe potuto essere decisivo. Prima dell’incontro andai dai giocatori e, nonostante le casse fossero come sempre vuote, promisi loro un premio in caso di vittoria. Io stesso non ci credevo, ma alla fine la rivincita ci fu. Vincemmo 2-0 e l’Inter perse lo scudetto, nacque così l’espressione “Clamoroso al Cibali”. Non vi dico la faccia che fece mio fratello quando gli comunicai che dovevamo pagare l’extra ai giocatori!».

Nove anni più tardi, con la squadra di nuovo in B, finì l’era Marcoccio. «Si, il calcio era cambiato e mio fratello fu il primo a capirlo, proprio mentre succedeva, e lo disse a chiare lettere – a questo punto tira fuori dal portafoglio una fotocopia di giornale con un trafiletto che racconta della riunione di Lega con la quale si approvò la trasformazione dei club calcistici in Società per azioni – “È la fine del calcio”, dichiarò mio fratello, l’unico a votare contro insieme al presidente del Torino».

In effetti quello di oggi è un calcio che ha poco o nulla a che vedere con quello dei suoi tempi. «Infatti. Allora squadra e società formavano una grande famiglia, andavamo persino in vacanza insieme, trascorrevamo insieme le feste, si viveva in armonia e i risultati venivano anche per questo. Basti pensare che la moglie di Vavassori pianse quando seppe di dover trasferirsi a Catania, ma al momento dell’addio pianse lacrime ancor più calde perché non avrebbe voluto lasciare quella che era diventata casa sua».

E devono essere stati anni fantastici, se solo a sentirli rievocare mi emoziono come un bambino. Ringrazio il gentilissimo padrone di casa, non senza aver posato con lui, Roberto e Filippo per una foto ricordo e torno a casa con un pezzo di storia nel taccuino.